MUGELLO – Lo ricordiamo insieme ai nipoti Stefano e Alessandro Bartolucci.
Monsignor Bartolucci, borghigiano classe 1917, è defunto l’11 novembre scorso, all’invidiabile età di 96 anni. Al di là del titolo ecclesiastico e della fama di compositore e musicista internazionale noti a chiunque, siamo andati ad intervistare i due nipoti Stefano e Alessandro, entrambi residenti a Borgo, che gentilmente ci hanno donato disponibilità di tempo per delineare aspetti meno conosciuti, più legati all’uomo amato dai suoi concittadini, dagli amici e dai familiari, che alla figura imponente apprezzata dai papi, dai grandi nomi della musica, come Herbert Von Karajan o Riccardo Muti, e da tutto il mondo.
Stefano, te lo chiedo in qualità di medico: 96 anni sono una bella età, qual’è il segreto di questa longevità, la musica? Certamente fare la cosa che piace e che si ama è un ingrediente. Ma fondamentale è la natura della persona: sua mamma è morta all’età di 94 anni. Riguardo alla sua giornata tipo, si può dire che era regolare, sia di orari sia di attività, definita in maniera metodica. Non aveva eccessi né vizi. Il cibo non era una priorità.
Alessandro, ci racconti un po’ la sua giornata? Senza dubbio tutta la sua giornata era quasi tutta incentrata sulla musica. Sveglia alle sette, messa rigorosamente in latino, giusto un quarto d’ora per la colazione. Da lì in poi lo trovavi nello studio fino all’ora di pranzo. E tornava sempre nello studio, appena dopo pranzo fino all’ora di cena. Nel dopocena un po’ di televisione e lì ecco il “dramma”, un continuo cambiar canale: non riusciva quasi mai a trovare un programma culturale, un concerto di musica o un dibattito politico che riusciva a stimolarlo, che alla fine lo interessasse o arrivasse ad incuriosirlo. Non andava bene mai nulla, non si accontentava mai: aveva un gusto sensibile, selettivo e ricercato. D’altronde era un uomo dalla cultura vastissima: aveva tantissimi libri che aveva letto più volte. Guardava le partite di calcio, ma solo quando giocava la Nazionale.
E nello studio, Stefano, che cosa faceva? Lavorava alle sue opere, continuamente. I fogli dei suoi lavori sono pieni di cancellature, correzioni. Diceva: “La musica è come la matematica, deve tornare perfettamente” e se per lui non tornava, cancellava tutto e ripartiva da capo. Lo ripeto, a lui non andava mai bene nulla. Lo dico in senso positivo: la sua era una continua ricerca verso il perfezionamento, verso il miglioramento. Era una persona davvero molto critica prima di tutto con se stesso. Nonostante fosse universalmente apprezzato, non l’ho mai sentito lodare un suo lavoro. Anche se era ben consapevole che non tutti potevano essere capaci di essere musicisti. Quando parlava della musica e della matematica aggiungeva infatti che le due sono anche diverse: la prima la possono imparare tutti, la seconda è un dono che non si può apprendere, bisogna averla dentro. Secondo lui, tutti possono suonare uno strumento, affinare la tecnica e l’esecuzione con lo studio, proprio come la matematica si impara con l’esercizio. Ma aver il dono che fa emergere il talento è la differenza tra un musicista e un esecutore, per quanto bravo.
Qual’è la sua opera più cara, Alessandro? Lo zio ha avuto una produzione ampissima. Ha iniziato a scrivere sin da quando era ragazzo. Senza dubbio però posso dirti che l’Ave Maria era la sua preferita, ma di pari passo veniva la sinfonia rustica “Mugellana”, un concerto per pianoforte e orchestra, scritta in omaggio proprio alla sua amata terra. Da giovanissimo è entrato nel seminario fiorentino e da subito reclutato come cantore. Nel 1942 andò a Roma per approfondire la conoscenza della musica sacra. E’ stato parroco a Montefloscoli negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, ma poi per la maggior parte della sua vita è stato a Roma, tornando a Borgo ogni anno per non più d’un mese, d’estate ad agosto. Tuttavia l’amore per la sua terra natale non è venuto mai meno: legatissimo al Mugello, ai suoi territori, ai suoi fiumi e ai suoi tramonti, alla sua gente. Montefloscoli l’ha sempre considerata come la sua vera casa. Se si ascolta la “Mugellana” con attenzione e più di una volta, chiudendo gli occhi, sembra di sentire la narrazione e la descrizione dei territori attraverso il suono della musica, creando in astratto immagini ben definite: le campane, i momenti della giornata contadina, la battitura del grano, i ruscelli.
Lo zio ha girato tutto il mondo, tranne qualche parte dell’Africa, ma ha sempre detto: “l’ambiente familiare, raccolto, rasserenante del Mugello lo si trova solo qui e non in altra parte”. Un altro lavoro che guardava con affetto era la sua opera lirica “Il Brunellesco”, per cui ha lavorato per molto tempo, dedicandola a Firenze con la speranza che venisse rappresentata.
Cosa che per ora non è avvenuta, purtroppo. Si tratta dopotutto di un’opera molto impegnativa dal punto di vista della scena, anche per il numero di artisti coinvolti. Da quanto mi raccontate, traspare chiaramente l’amore per la terra natia. E i rapporti con la famiglia? Beh la sua mamma, donna molto pia e da tutti molto considerata, era appassionata di cultura e musica da sempre. In tempo di guerra ha insegnato a scuola a molti borghigiani. Ha sempre sostenuto e incoraggiato il figlio, ne era molto fiera. Domenico aveva soprattutto un gran ricordo e una grande stima verso il padre, una persona in effetti squisita morta abbastanza giovane, nel 1958. Lavorava alle fornaci Brunori, ma nel tempo libero cantava nel coro della chiesa. Domenico ha iniziato proprio lì a cantare, seguendo il padre.
E’ qui che nasce la sua passione per la musica? Lui diceva che la passione per la musica nasce dentro. Sicuramente la figura paterna, punto di riferimento importantissimo per lui, ha contribuito ad innescare la scintilla. Diventata poi una passione talmente forte che in seminario temevano che dedicasse troppo del suo tempo ad essa. Ci raccontava che in questi tempi, per non farsi sentire, aveva una tastiera di cartone su cui aveva disegnato i tasti. Su questi muoveva le dita e nella testa si immaginava il suono: così si esercitava. E’ sempre stato intelligente e precoce: a sei anni era in classe terza.
Monsignor Bartolucci divenne direttore del coro della Cappella Musicale Pontificia “Sistina” risollevandone con il proprio impegno le condizioni allora precarie, grazie anche all’interessamento di Papa Giovanni XXIII. I successivi 40 anni lo videro protagonista nella direzione delle esecuzioni sia durante le liturgie papali sia nelle tournée in vari paesi di tutto il mondo. Nel 1997 viene sostituito nella direzione da Monsignor Liberto. Come l’ha presa? Molto male, si arrabbiò molto. Si aspettava che per l’età raggiunta prima o poi venisse sostituito, ma si sentiva ancora in gamba e lo era: arzillissimo come un grillo fino a 90 anni. Tuttavia non apprezzava la scelta fatta sul suo sostituto, avrebbe preferito trovare una persona più adatta a cui affidare il compito. C’è infatti questo aspetto: quel tipo di musica sacra è una tradizione che si tramanda oralmente da maestro a maestro. A dirigere si impara tutti, ma tutto altro conto è tirare fuori le caratteristiche identificate dalla tradizione. Quelli che ricevono tali insegnamenti orali hanno un modo diverso di dirigere, di suonare e di cantare, è un’altra realtà. C’è da dire che il coro oggi si sposta veramente di rado, è difficile che venga via da Roma, rispetto ai tempi in cui lo dirigeva lo zio, nei quali girava il mondo.
Il Monsignore ha trovato un erede? Non crediamo nessuno. Fu così repentina la sostituzione che non ebbe modo di trovare un degno erede a cui affidare l’eredità che aveva ricevuto dal Perosi. Tuttavia oggi la chiesa è cambiata, si è rinnovata. Forse un’epoca si è conclusa.
Un’epoca che tuttavia Monsignor Bartolucci non ha mai inteso come finita: si può dire infatti che la caratteristica che emergeva in lui coerentemente da sempre era quella di un’ossequio e di un profondo rispetto verso la tradizione. Giusto?
Sì, lo zio è stato da sempre molto legato alla tradizione. Per esempio negli anni del Concilio Vaticano II è stato contrario all’abbandono del latino. Per lui il latino era la lingua universale di tutti i cristiani. Ci raccontava spesso che, in territorio estero, tra sacerdoti si parla in latino per comunicare. Non in inglese o tedesco o francese. Si è impegnato strenuamente affinché la riforma liturgica non prendesse un indirizzo ostile anche verso la musica sacra.
Chi è l’amico più caro di Domenico Bartolucci? A Montefloscoli venivano in diversi a trovarlo. Non si può indicare un amico preferito. Voleva bene a tutti, aveva una parola per tutti. Con le persone che conosceva da più tempo parlava dei vecchi tempi, di quando erano giovani, di quel che facevano e soprattutto di quello che oggi era scomparso. Rammentavano il tempo in cui erano tutte famiglie di contadini, tra ragazzi giocavano a giochi che oggi non esistono più e i grandi -era quello il tempo dell’arrivo dei primi televisori- si ritrovavano insieme al circolo della parrocchia a vedere la televisione.
Negli anni tra il 1997 e il 2006, anno in cui fu richiamato da Papa Benedetto XVI a dirigere un concerto nella cappella Sistina, a cosa si è dedicato? Ha perfezionato i suoi lavori, li ha corretti, li ha rivisti. Ha messo mano a tutta la produzione di una vita. Poi nel 2010 Benedetto XVI, papa dal quale era davvero molto apprezzato, lo ha elevato alla dignità cardinalizia. La chiesa ha conferito allo zio un riconoscimento importante: è stato il cardinale più anziano di sempre nella storia della Chiesa Cattolica.
Anche il Mugello nel 2011 volle redere a lui omaggio con un concerto: venne messo in scena il suo “Miserere”. Certamente l’apprezzò. Qualche aneddoto? Sì l’apprezzò, anche perché nell’orchestra erano presenti sia il sindaco sia il pievano. Un omaggio a “tutto tondo”. Come s’è già detto, lo zio non era mai contento. Ha partecipato alle prove dando indicazioni su come suonare il “Miserere” al meglio. Durante una prova, ha preso anche la bacchetta al direttore per dare indicazioni al baritono. Alla fine, lo stesso baritono, un professionista, ha riconosciuto che il risultato era migliorato di parecchio. E lo zio: “Ecco, ora canta come si deve”.
Anche noi con questo articolo abbiamo cercato di rendere riconoscimento e omaggio, con umiltà, a un personaggio che non solo rappresenta uno degli apici delle eccellenze mugellane, ma è un esempio del genio italiano. Si ringrazia il dottor Stefano e l’ingegner Alessandro Bartolucci per la disponibilità dell’intervista e per averci dato le foto pubblicate
Fabrizio Nazio
© il filo, Idee e notizie dal Mugello, fascicolo 256 febbraio 2014
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